Affermatosi nel 2006 con il Leone d'oro a Still Life, Jia Zhang-ke fa capire con il suo cinema, meglio di tanti saggi, una Cina separata tra passato e modernità. Diviso in tre parti, inizia nel 1999 con un triangolo amoroso in un contesto rurale già infiltrato di motivi occidentali: corteggiata da un «nuovo ricco» e da un impiegato di miniera, Tao sceglie di sposare il primo. La seconda parte è ambientata in un 2014 in cui l’euforia di un tempo si è quasi spenta. Tao e Zhang, divorziati, hanno un figlio, Dollar, che vive con il padre a Shanghai. Quandola madre lo rivede, la distanza tra i due è già incolmabile, come quella che separa la Cina convertita al capitalismo, dall’altra rimasta legata alle vecchie tradizioni. La terza parte è invece ambientata nel futuro, nel 2025, in Australia dove Dollar parla solo inglese ma vorrebbe ritornare in Cina, alle sue radici, a rivedere una madre di cui ricorda solo il nome. Un mélo pop sontuoso, massimalista, totalizzante, in una Cina, dolorosa e bellissima, che lascia un segno, nitido, impossibile da non cogliere nella sua disarmante lucidità.